Politica e informazione

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1. Il valore politico dell’informazione

Il rapporto tra informazione e realtà politica è di tutta evidenza, ma la sua definizione si presenta viceversa piuttosto complicata e sfuggente poiché tale rapporto è soggetto al variare dei regimi politici e al diverso ruolo che i mezzi della comunicazione assumono sia rispetto al potere istituito sia rispetto alle strutture economiche, sia rispetto alla società nel suo insieme. Il giornalista americano Walter Lippman, avviando nel lontano 1922 la sua riflessione sull’opinione pubblica, narrava questo apologo. C’è un’isola dell’oceano dove nel 1914 vivevano insieme alcuni inglesi, francesi e tedeschi. L’isola non era in grado di ricevere cablogrammi e solo ogni due mesi vi approdava un postale inglese. Nel settembre di quell’anno, gli abitanti, attendendo l’arrivo della nave, discutevano ancora dei fatti di cui parlava l’ultimo giornale che avevano ricevuto: l’imminente processo a madame Caillot per l’uccisione di Gaston Calmette. Fu dunque con una impazienza maggiore del solito che l’intera colonia una mattina della metà di settembre si trovò riunita al molo per apprendere la sentenza dal capitano del postale. Vennero a sapere, invece, che da più di sei settimane quelli di loro che erano di nazionalità inglese, insieme a quelli di nazionalità francese, si trovavano in guerra con quelli di loro che erano di nazionalità tedesca. Durante quelle curiose sei settimane si erano comportati reciprocamente da amici mentre, di fatto, erano già nemici.
Questo apologo apparentemente marginale al tema, dice anzitutto che il fatto, in questo caso la dichiarazione di guerra, non esiste o quanto meno non produce i suoi effetti sino a quando non intervenga la sua comunicazione e che questa comunicazione è in grado di mutare i rapporti fra gli uomini: prima della comunicazione l’amicizia faceva aggio sulla diversa appartenenza politica dei soggetti. Una volta appresa la notizia della guerra, la fedeltà alle diverse appartenenze politiche fa aggio sui rapporti personali. Il caso macroscopico della dichiarazione di guerra e dei suoi effetti è comunque emblematico delle ripercussioni e delle interferenze della comunicazione nei rapporti degli uomini fra loro e con i rispettivi poteri politici. La diffusione di massa degli strumenti di comunicazione e le aspre competizioni che si sviluppano per il possesso o la disponibilità di detti strumenti hanno sollevato un dibattito generalizzato che investe non solo gli intellettuali, ma anche i governi sollecitati a legiferare sulla questione e persino l’Organizzazione delle Nazioni Unite, preoccupata della condizione di inferiorità cui l’assenza di vasti sistemi informativi condanna il mondo sottosviluppato.
Un tale dibattito sul valore politico dell’informazione e sulla realizzabilità e fondatezza di un relativo diritto, oscilla per lo più tra due estremi: il riconoscimento, da un lato, del valore che l’informazione rappresenta nello sviluppo della coscienza di una comunità, per il controllo del potere e in generale per il processo di democratizzazione; e, dal lato opposto, il pericolo che l’informazione padroneggiata da un potere dispotico, o anche soggetta unicamente alle leggi di un mercato senza regole, finisca per rappresentare uno strumento che omologa o ottunde le coscienze, sino a costituire un potere a sé stante e un pericolo per la società. Tanto che l’esigenza di regolare libertà e diritti d’informazione finisce per rappresentare un problema di etica sociale a livello planetario.
La vastità delle questioni accennate induce a limitare l’esposizione, necessariamente sommaria, ad alcuni aspetti fondamentali. Anzitutto un accenno ai fondamenti storici e teorici del rapporto in considerazione; in secondo luogo un riferimento ai regimi politici e allo statuto dell’informazione con riguardo soprattutto ai regimi democratici; ancora l’interesse della comunità internazionale per coniugare informazione e sviluppo; e infine alcune osservazioni sulla influenza dei moderni sistemi informativi sulla vita politica con riguardo alle rispettive dimensioni.

2. Fondamenti storici e teorici

L’avvento dei moderni mezzi di comunicazione di massa e le relative battaglie sulla libertà di stampa segnano visibilmente il passaggio dall’Antico regime alla Età moderna. Basti pensare che in Francia la stagione rivoluzionaria vide la straordinaria fioritura di oltre un centinaio di periodici. In quella situazione di trapasso il ruolo della comunicazione pubblica era oggetto di interesse non solamente dei politici, ma dei filosofi.
L’Illuminismo e, in particolare, la riflessione di Immanuel Kant (1724-1804) affermano con forza l’esigenza primaria di sottrarre la politica alla segretezza e all’esoterismo degli arcana imperii, vale a dire al cerchio ristrettissimo del sovrano e dei suoi consiglieri. Kant teorizza la ‘pubblicità’, cioè la discussione pubblica delle idee e delle scelte politiche e delle stesse idee religiose, come momento necessario per restituire la politica alla luce dell’intelligenza. Certamente la ‘pubblicità’ kantiana non era l’opinione pubblica nel senso moderno dell’espressione. Era l’aspirazione relativamente ingenua che il cenacolo dei saggi e dei dotti, distante quanto basta dai luoghi deputati del potere, potesse rappresentare ai governanti e al pubblico la propria opinione critica sugli atti di governo. E proprio in quanto tale opinione scaturisce da un confronto del tipo descritto fra le élite intellettuali, essa assurge quasi a criterio di verità e di moralità. Il suo ideale non era certo l’assemblearismo della Convenzione o della Costituente della Francia rivoluzionaria, quanto piuttosto il supporto e il coronamento della monarchia illuminata.
Hegel (1770-1831) si rivela estremamente più cauto. Se lo spirito del popolo rappresenta per lui "la vera materia degli ordinamenti politici" e contiene "i principi essenziali della giustizia", l’espressione, la manifestazione di questa realtà è soggetta alla accidentalità dell’opinare, al pervertimento della "scarsa" o addirittura della "falsa" coscienza, e perciò al giudizio distorto. Pertanto non è la libertà di tale manifestazione che può garantire, come per Kant, il buon governo. È piuttosto lo Stato, incarnazione dello spirito nella sua eticità, che consente la comprensione, la valorizzazione, la verità intima della coscienza profonda del popolo.
Hegel ha parole severe, quasi sprezzanti per il giornalismo e i giornalisti. In termini astratti, egli esprime la sostanziale ambiguità degli strumenti di comunicazione e della opinione pubblica che essi intendono rappresentare, un’ambiguità che in fondo si trascina sino ai giorni nostri. Un’ambiguità di fronte alla quale, almeno nei Paesi dell’Occidente, ha prevalso il principio della libertà, non necessariamente perché si riconosca agli strumenti del comunicare e alla loro dialettica un principio di verità, quanto perché non si riconosce alle istituzioni politiche il ruolo attribuitogli da Hegel di incarnazione dello spirito del popolo e di tutore della sua verità. Un difensore strenuo della libertà di stampa e del suo ruolo politico è stato Karl Marx (1818 - 1883) nelle sue pungenti battaglie contro la censura prussiana. "Per combattere la libertà di stampa – diceva – si deve difendere l’immaturità del genere umano; ma se l’immaturità del genere umano è un fondamento mistico contro la libertà di stampa, la censura è, in ogni caso, uno strumento assai accorto contro la maturità del genere umano". Raramente sono state scritte parole cosi penetranti a favore della libertà degli strumenti del comunicare, e raramente esse sono state drasticamente smentite come dai tanti seguaci che hanno detto di ispirarsi a lui. Tuttavia Marx ha aperto un varco serio nella fiducia ‘ingenua’ nella libertà. In una società civile in cui prevalgono in ultima istanza i rapporti di forza, "non è possibile – diceva – nessun assetto di diritto che sostituisca l’autorità politica con una autorità razionale". Per cui gli strumenti del comunicare, lungi dal rappresentare l’universalità, sono in definitiva l’espressione di una parte, di una classe.
È interessante ricordare che lo sviluppo delle istituzioni liberali non corrisponde a una crescente fiducia nelle potenzialità della libera informazione. La libertà di pensiero e di espressione si configura per sé come una prerogativa della persona, una sorta di diritto naturale. John Stuart Mill (1806-1873) si augurava che finisse il tempo in cui era necessario difendere la libertà di stampa come una delle garanzie contro governi corrotti o tirannici, ma si preoccupava immediatamente di contrastare la tirannia della opinione pubblica. Se tutto il genere umano, meno uno, fosse di una certa opinione e una persona sola professasse l’opinione contraria, l’intera umanità non sarebbe giustificata nell’imporre il silenzio a quell’unica persona. Al tempo stesso era preoccupato di come si venisse formando l’opinione delle masse. Le masse non attingono né ricevono le loro opinioni come una volta dai dignitari della Chiesa e dello Stato, oppure da qualche capo visibile, o dai libri. E lamentava che tali opinioni fossero formate da uomini di bassa levatura che si indirizzano al pubblico e discettano un po’ di tutto "per mezzo dei giornali".
Evidentemente, il liberalismo elitario esprimeva così la sua diffidenza per la democrazia. D’altra parte lo stesso Alexis de Tocqueville (1805-1859), a ragione considerato l’osservatore più attento della democrazia allo stato nascente, è tutt’altro che tenero nei confronti degli strumenti di comunicazione. Aveva compreso bene che la libertà di stampa non influenzava solamente le opinioni politiche ma le opinioni in generale, non solo le leggi, ma anche i costumi. Con grande sincerità, affermava di non avere per la libertà di stampa "quell’amore completo e subitaneo che solamente si accorda alle cose buone per natura", apprezzandola più per i malanni che può impedire, che per il bene che fa. Inoltre negava che potesse individuarsi una posizione mediana fra l’indipendenza totale e il totale asservimento del pensiero, per cui concludeva che la sovranità del popolo e la libertà di stampa sono due cose interamente correlate, mentre la censura e il suffragio universale sono due cose che si contraddicono e non possono coesistere a lungo nelle istituzioni politiche.

3. Regimi politici e statuto dell’informazione

Se la storia dell’affermazione politica e istituzionale della libertà di informazione presenta sin dagli albori i problemi derivanti dalla ambivalenza degli strumenti relativi, la connessione indicata da Tocqueville tra libertà di stampa e sovranità popolare indica in modo chiaro come lo statuto riservato dalle costituzioni agli strumenti di comunicazione è un parametro importante per definire i regimi politici. In linea di principio è chiaro che i regimi totalitari sono contro la libertà degli strumenti di comunicazione, o meglio, riconoscono tale libertà solo ai propri fedeli; mentre i regimi democratici fanno della libertà di informazione e di comunicazione un pilastro delle loro istituzioni (Sistema della comunicazione).
Ovviamente non basta guardare alla mera formulazione di tali libertà nelle tavole costituzionali che possono anche riservare qualche sorpresa, ma alla sostanza dei rapporti. Per esempio, la Costituzione staliniana dell’ex Unione Sovietica non solo proclamava spavaldamente a tutte lettere la libertà di stampa, ma era la sola, credo, a dar rilievo costituzionale alla concreta possibilità di realizzare imprese giornalistiche "mettendo a disposizione dei cittadini le tipografie di Stato e le provviste di carta". Il diritto formalmente sancito assumeva pertanto, attraverso l’intervento pubblico, una consistenza affatto particolare. Peccato che questa possibilità fosse soggetta a una condizione draconiana, vale a dire che tipografia e carta potevano esser assegnate solo se il loro uso giovasse "a rafforzare l’organizzazione socialista". Inutile aggiungere che il giudizio su ciò che poteva o non rafforzare il socialismo, competeva esclusivamente agli organi del partito-stato.
Esistono tuttavia anche casi speculari, fatte naturalmente le debite proporzioni. Un caso peculiare è quello della costituzione gollista in Francia, varata tra il 1958 e il 1962. Costituzionalisti equilibrati hanno sollevato più di un dubbio circa la piena democraticità della forma di governo prevista dal Generale data la somma di poteri attribuita al Presidente, con la forte riduzione di quelli del parlamento e lo scavalcamento dei partiti. Fu usata in quella circostanza la definizione di "principato plebiscitario", anche per il forte impulso dato all’uso dei referendum, per sottolineare l’affievolimento dei tradizionali istituti della democrazia. Ma in una situazione come quella descritta, il rigoroso rispetto della libertà di stampa e l’uso equilibrato e non settario dell’informazione radio-televisiva pubblica rappresentarono un serio contrappeso nei confronti del carattere limitato e protetto degli ordinamenti costituzionali.

4. Il caso radiotelevisivo in Italia

Volendo esemplificare un aspetto ancor più complesso dei possibili rapporti fra informazione, comunicazione e politica, si può fare riferimento alla vicenda della radiotelevisione italiana. Allorché attorno ai primi anni Cinquanta il potere politico, e per esso il partito di maggioranza relativa, si rende conto delle potenzialità insite nel mezzo televisivo, avvia un processo di penetrazione nella Rai le cui strutture erano derivate dalla vecchia EIAR creata dal regime fascista. La nomina dell’ing. Filiberto Guala ad Amministratore delegato è un’operazione a contenuto prevalentemente culturale. Il gruppo aziendalista ereditato in buona parte dall’EIAR non ha una definita fisionomia politica, tuttavia è sostanzialmente estraneo al mondo cattolico che viceversa rappresenta il retroterra più consistente del nuovo potere nella Repubblica italiana. Guala non stravolge gli equilibri interni, ma avvia piuttosto un’opera di reclutamento intelligente di personale nuovo destinato a rappresentare la futura ossatura dell’azienda. Il monopolio statale della Rai non è in discussione e nel 1960 la Corte costituzionale lo dichiara pienamente legittimo, quando peraltro lo stesso Guala è forzato alle dimissioni dai contrasti con il gruppo aziendalista. Il quadro cambia con la designazione di Ettore Bernabei a Direttore generale con ampi poteri. Egli continua il lavoro di reclutamento mirato, ma interviene con forza sui posti direttivi interni, utilizzando collaboratori di qualità. In questa fase, quella che poi sarà definita l’occupazione democristiana non suscita particolari resistenze poiché, da un lato, la qualità dei programmi si mantiene sostenuta e dall’altro l’informazione rimane piuttosto in ombra limitandosi all’ufficialità.
Ben presto, però, il mutato equilibrio politico nel governo, con l’ingresso dei socialisti, e soprattutto il manifestarsi della trasformazione intervenuta nella società italiana con le agitazioni del 1968 o le lotte operaie del 1969-1970, mettono in evidenza l’anomalia della situazione. I socialisti premono per una presenza più ‘adeguata’ ai vertici della azienda e, più in generale, la sinistra vuole interrompere il monopolio democristiano dentro il monopolio statale.
Nel 1968 anche nella Rai si sviluppano agitazioni che reclamano maggiore autonomia dal governo e dalle forze politiche. Rai e governo chiedono a tre ‘saggi’ un rapporto sulla funzione e sull’organizzazione del servizio pubblico, ma il rapporto viene rapidamente messo da parte. La direzione dell’Azienda formula nuovi organigrammi per mantenere il controllo e raffreddare le pretese delle tendenze autonomiste.
Tuttavia alcune novità si rendono inevitabili. Queste intervengono su due versanti. Nel 1974, con due sentenze a breve distanza l’una dall’altra, la Corte costituzionale apre un varco alle televisioni private a diffusione regionale, mentre un anno dopo il governo di centro-sinistra vara la riforma della Rai. La responsabilità dell’emittenza pubblica e dei suoi indirizzi passa dal governo al potere legislativo con l’istituzione di una commissione parlamentare come referente supremo. La riforma rappresenta un indubbio passo in direzione del pluralismo, ma in qualche modo viene a sanzionare i criteri spartitori che presiederanno alla conduzione dell’azienda sino agli anni Novanta (Lottizzazione). La commissione infatti, e non poteva essere altrimenti, rispecchia proporzionalmente le componenti parlamentari ed elegge a sua volta un Consiglio di amministrazione che ripete proporzioni partitiche. A questo punto l’incidenza dei partiti sulla Rai diventa in qualche misura legalizzata e quanto più si allarga lo spettro dei partecipanti, più si fa incombente la presa delle Segreterie politiche sul personale etichettato e fedele. Si moltiplicano, ovviamente, le protezioni e le spese e si perde quella unità di impostazione e di indirizzo che aveva consentito a Bernabei di dirigere l’azienda, mantenendo relativamente alta la produzione con un accorto dosaggio degli apporti esterni. Quell’unità di indirizzo, del resto, rendeva più riconoscibile lo strumento; e anche chi si opponeva al monopolio DC nel monopolio pubblico era sollecitato a misurarsi con esso in modo più consapevole e costruttivo. Nel caos determinatosi successivamente è questa circostanza che fa qualche volta rimpiangere la cosiddetta ‘era Bernabei’.
La riforma del 1975 concentra l’attenzione sull’informazione (i nuovi telegiornali presto etichettati secondo fedeltà di partito, nascono nel 1976), ma intanto prende sempre più corpo la presenza delle televisioni private. Sapientemente, la lobby dei privati, agendo sui partiti, riesce a impedire che si ponga mano a una regolamentazione dell’etere e nel vuoto legislativo, capacità imprenditoriali e protezioni politiche consentono a un solo soggetto di accaparrarsi il maggior numero di televisioni private a diffusione nazionale, creando uno stato di fatto per cui ogni successivo intervento limitativo rischia di assumere il senso e la portata di un intervento lesivo della libertà di espressione. Di fatto viene scavalcato rapidamente il limite della diffusione regionale per i privati, che verrà poi abolito anche per legge, dando vita a un singolare duopolio pubblico e privato e all’esplodere di una concorrenza che invece di elevare la qualità del prodotto la subordina per entrambi alle esigenze economiche.
Questo stato di fatto viene praticamente sancito dalla cosiddetta Legge Mammì dell’agosto 1990. Mano a mano che cresce la dimensione dello strumento, il dato culturale fondativo sia delle emittenti pubbliche, che fanno riferimento alla cultura o alle culture politiche dei partiti, sia delle emittenti private, che fanno riferimento (teorico) a una indipendenza dalla politica, si tempera e si disperde. Lo strumento diventa dipendente da un sistema per sé estraneo a ogni cultura, sempre più legato cioè al mercato pubblicitario, alla concorrenza per conquistare maggiore ascolto, all’ Auditel come referente principale se non esclusivo.
In queste vicende non mancano i paradossi. Nelle lotte politiche per guadagnare spazi nel sistema televisivo il personale politico è spesso persuaso che lo strumento di comunicazione sia strumento e garanzia di potere, più ancora della qualità delle idee che lo stesso personale politico dimostra di possedere. Se tuttavia si guarda alla vicenda politica italiana sembra quasi che sia vero il rovescio. Può essere che la durata del potere politico democristiano sia riferibile anche alla sua massiccia presenza nel principale mezzo di comunicazione pubblico; certo è però che il suo apogeo si verifica prima della occupazione massiccia della Rai, mentre dopo questa occupazione si ha una fase di resistenza e poi di decadenza. Non solo. La cosa che forse più conta è che quei mezzi, pur considerati potentissimi, non sono stati in grado di ringiovanire e neppure di conservare socialmente l’adesione a valori considerati costitutivi della tradizione cristiana. Anche il declino e la caduta del Partito socialista italiano hanno preso avvio, poi divenuto precipizio, nel momento in cui quel partito era solidamente installato nel servizio pubblico e godeva di un rapporto altamente privilegiato con la struttura privata. Quanto al Partito comunista, esso è cresciuto in numero di adepti e in autorevolezza senza aver parte alcuna nel servizio pubblico, mentre, da quando è stato partecipe della spartizione delle testate, ha probabilmente arricchito il servizio stesso e la sua immagine, ma ha anche cominciato a perdere consensi e autorità.
Sarebbe sbagliato trarre conclusioni ultimative da simili circostanze; tanto più lo sarebbe considerare i mezzi di comunicazione la causa della decadenza dei partiti. Si è tuttavia indotti a ritenere che la disponibilità di questi strumenti, nell’ambito di un regime passabilmente libero, non rappresenta una garanzia per il potere e soprattutto che essi non possono sostituire le idee nell’orientamento politico dell’opinione pubblica.
Questa carrellata sulle vicende della televisione italiana conferma in modo esemplare quanto sia complesso stabilire delle costanti nel rapporto fra comunicazione, informazione e politica, ma al tempo stesso rivela come questo rapporto sia continuo nell’una e nell’altra direzione, dalla comunicazione al potere, dal potere verso i mezzi di comunicazione. Ciò vale naturalmente anche al di fuori dell’esperienza italiana. I resoconti delle battaglie politiche presidenziali americane esaltano spesso il potere della televisione e in generale dei media. Kennedy batte Nixon soprattutto per la qualità delle sue prestazioni in video. Nixon a sua volta, succeduto a Johnson, è costretto alle dimissioni dalle rivelazioni del Washington Post sulla vicenda del Watergate: in questo caso, il giornalismo ha assunto l’iniziativa nei confronti del potere. Reagan instaura l’era del ‘grande comunicatore’. G. Bush senior, definito il "presidente della carta stampata" poiché non amava la televisione, nonostante la enorme popolarità raggiunta in America con la Guerra del Golfo, è sconfitto da Clinton che ha una presenza televisiva più efficace. Anche negli eventi drammatici dei conflitti armati, la comunicazione assume un peso politico notevolissimo. Il ritiro americano dal Vietnam, dicono i massmediologi, comincia quando la televisione rovescia sul paese le immagini realistiche della guerra e il più popolare conduttore televisivo abbandona il registro patriottico e considera giunta l’ora di finirla. Edotti dalla esperienza del Vietnam, i responsabili conducono le operazioni militari a Grenada e l’intera Guerra del Golfo con una attentissima regia comunicativa che frena e riduce quanto può la presenza diretta dei reporter sul terreno dell’azione, ma produce una valanga di informazioni ufficiali attraverso giornaliere conferenze stampa dei massimi operatori sul campo. Il potere della comunicazione si rivela forte ed efficace sul terreno politico, ma di scarsa durata. Già a ridosso delle operazioni avanzano le riserve e critiche che investono il potere politico e militare, nonché gli stessi operatori dei giornali e delle Tv, che avendo l’illusione di far vivere la guerra in diretta, hanno rinunciato a investigare le reazioni del conflitto e soprattutto i costi umani del combattimento. In conclusione, la popolarità del Presidente Bush – elevatissima, secondo i sondaggi, durante e immediatamente dopo l’operazione "Tempesta nel deserto" – non ha retto al confronto nella campagna elettorale per la riconferma.

5. In margine al Rapporto MacBride

Evidentemente diverso, a conferma peraltro della complessità di cui si diceva, si fa il discorso mutando la realtà sociale, politica e ambientale. Si pensi per esempio ai problemi e al dibattito sollevati dal rapporto dell’Unesco sulla condizione dell’informazione nel mondo, conosciuto anche come Rapporto MacBride. Questo documento, redatto agli inizi degli anni Ottanta , tende ad affermare due principi di fondo relativamente alla relazione tra informazione e politica: la necessità di democratizzare l’informazione, e la spinta a stabilire un ‘diritto all’informazione’. La democratizzazione, che non può essere interpretata in modo statico, in quanto bisogni e desideri popolari mutano e si ampliano nello svolgersi del tempo, viene definita dal rapporto come un processo attraverso il quale: a) l’individuo diventa partner e non esclusivamente oggetto della comunicazione; b) aumenta la varietà dei messaggi scambiati; c) aumentano l’estensione e la qualità della rappresentazione della partecipazione sociale nella comunicazione.
Ovviamente molti sono gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento di questo obiettivo. Il primo e il più ovvio è la natura del regime politico, il rispetto o meno delle diverse libertà, dalla libertà religiosa alle specifiche libertà di pensiero e di espressione. Ma ostacolo alla democratizzazione è la stessa struttura verticale dell’informazione, per cui ‘i pochi parlano ai molti sui bisogni dei molti, ma dal punto di vista dei pochi’. Allorché si prenda in considerazione la popolazione mondiale, un sistema democratico di informazione è piuttosto difficile da concepire anche per l’inadeguatezza degli strumenti e dei veicoli. Il Rapporto MacBride analizza anche il concetto di controinformazione o di informazione alternativa, una denominazione che può esprimere realtà diverse: gruppi locali interessati a rompere il monopolio di una informazione centralizzata o troppo vetrinistica; dissidenti che si oppongono all’establishment politico; minoranze che vogliono allargare la propria possibilità di comunicare; gruppi impegnati ad affermare nuovi bisogni o nuovi diritti. L’informazione alternativa nasce in una dimensione ristretta per lo più con mezzi poveri ( Comunicazione alternativa); in generale, la tolleranza dimostrata dai poteri investiti dalla critica, nei confronti dell’informazione alternativa, è inversamente proporzionale alla sofisticazione dei mezzi usati da quest’ultima. Almeno in linea di massima, in quanto tende ad affermarsi nell’ambito di una realtà sorda oppure ostile e a creare un consenso, la comunicazione alternativa si sforza di essere pluridimensionale, partecipativa e non individualistica: la capacità di stabilire relazioni interpersonali rappresenta la sua forza più grande. In effetti un aspetto importante della democrazia comunicativa è rappresentato dall’attitudine critica sufficiente da parte dei recettori: una questione che sorpassa talora le stesse funzioni proprie dello Stato in materia di istruzione pubblica e privata, dal momento che, almeno in via di principio, la gente non ha solamente bisogno di notizie che la incoraggino e la rassicurino sulle sue idee e le sue aspettative o comunque sulle idee e le aspettative di un assetto sociale e politico dato, ma ha bisogno anche di informazioni e di idee che eventualmente la mettano in condizioni di cambiare quell’assetto.
È in un siffatto ordine di considerazioni che il Rapporto MacBride formula l’ipotesi che si possa fondare e sancire un ‘diritto di comunicazione’ o ‘a comunicare’: non solo come semplice ampliamento della libertà e della democrazia, ma come fondamento di una comunicazione ‘a due vie’, un possibile scambio e un più libero accesso alla comunicazione.
A proposito del complesso documento dell’Unesco e specificamente per quanto attiene al rapporto tra informazione e politica, si possono fare alcune osservazioni. Va detto anzitutto che la realizzazione del sistema informativo e comunicativo, quale viene delineato, richiede probabilmente non solo una trasformazione dei sistemi informativi, ma anche una sorta di rivoluzione politica, che metterebbe in questione le gerarchie dei poteri esistenti anche nelle libere democrazie. Il documento esprime, in realtà, una forte intenzione politica in una visione del problema in cui risaltano con enorme evidenza lo squilibrio informativo tra Nord e Sud del mondo e le carenze che, sia per le condizioni di arretratezza economica, sia per la qualità dei regimi politici, rendono il mondo sottosviluppato tributario di fatto delle strutture comunicative del Nord.
Ma l’analisi dell’Unesco è severa anche nei confronti dei sistemi informativi del mondo cosiddetto sviluppato, laddove si è ancora molto lontani dalla piena democratizzazione secondo i canoni descritti dallo stesso Rapporto. Inoltre, quanto più l’informazione, i suoi strumenti e i suoi sistemi entrano nella sfera economica, assumendo le forme, le strutture e le finalità delle imprese economiche, più è facile che i fini economici abbiano la meglio su un incerto ‘diritto all’informazione’.
Se sulla base di questi concetti che sono, per così dire, in via di formazione, facciamo riferimento a quanto è avvenuto negli anni recenti, dal 1986 al 1989 nei Paesi dell’Est europeo, possiamo osservare quanto segue: è stata l’informazione alternativa che ha contribuito per la sua parte alle trasformazioni nella direzione della libertà politica e di informazione. Ma sono state le trasformazioni politiche che hanno restituito una certa dignità, consistenza, credibilità al sistema informativo di quei Paesi.
D’altra parte, e qui si tocca un punto molto delicato della questione, lo spirito, per non dire ‘la filosofia’ del rapporto MacBride sembra esprimere una visuale ‘illuministica’ dello sviluppo umano. Non perché non riconosca difficoltà enormi che si frappongono al raggiungimento degli obiettivi che dovrebbero caratterizzare la democrazia della comunicazione; ma piuttosto perché il rapporto sembra guidato dalla idea che basti la diffusione e la generalizzazione delle conoscenze, la diffusione delle informazioni, la partecipazione, a superare gli ostacoli del cammino umano verso traguardi autentici di libertà, di giustizia e di fraternità. Dove sembra cioè che la natura delle idee, la coscienza che l’uomo ha di sé nel momento storico dato, passi in secondo piano rispetto allo sviluppo degli strumenti e della opportunità di comunicare.
La questione risalta ancora meglio per il fatto che, esaminando globalmente la condizione informativa su scala mondiale, il Rapporto delinea alcuni temi specifici sui quali, a suo giudizio, strumenti e sistemi comunicativi non danno il contributo che ci si aspetterebbe da loro. Si tratta di temi formidabili come guerra e disarmo, fame e povertà, gli squilibri tra Nord e Sud. E però, nel momento in cui si ritiene di assegnare al sistema comunicativo un compito di ‘illuminazione’ relativamente a temi di tale portata, è legittimo chiedersi se e in che misura debbano mutare le politiche generali, le idee stesse che sottostanno all’assetto politico degli Stati e del mondo, affinchè le strutture comunicative siano messe in condizione di adeguarsi al compito. È un pregiudizio ottimistico quello per cui si ritiene che qualora fosse adeguatamente informata, la ‘gente’, l’umanità, sceglierebbe sempre la pace, la solidarietà, la giustizia.

6. La dimensione politica e comunicativa

Un aspetto ulteriore delle relazioni che intercorrono fra informazione e politica, di cui peraltro meno si discute, è legato alla dimensione tanto della realtà politica in cui opera la comunicazione, quanto delle stesse strutture comunicative. Una questione che ne implica un’altra: quella del ruolo che sono in grado di svolgere gli strumenti della comunicazione rispetto alle strutture politiche esistenti, di conservazione o di cambiamento.
In modo particolarmente attento e penetrante, la questione della dimensione comunicativa è stata affrontata da Robert Escarpit corsivista ed editorialista prima, poi direttore di Le Monde. Egli distingue nell’ambito politico e informativo una piccola dimensione, una grande dimensione e una iperdimensione.
La piccola dimensione ha il suo prototipo politico nella città antica, nella quale la forma prevalente di comunicazione è quella orale: essa dà luogo a una rete fitta di informazioni che passano attraverso molti canali, subendo un processo di elaborazione e di vaglio che contribuisce a costruire una certa identità collettiva. Si tratta di una forma embrionale di opinione pubblica, protetta sia da una eccessiva influenza esterna, cioè dalla interferenza dei poteri politici, sia da eccessive influenze interne, vale a dire dal predominio egemonico o economico di persone o gruppi dentro la rete comunicativa. È appena il caso di ricordare che esiste sempre una connessione stretta fra struttura economica e dimensione comunicativa. È la struttura economica che crescendo, espandendosi, determina anche l’espansione e il mutamento della dimensione comunicativa, per cui la prima impone alla seconda la propria coerenza, contraddicendo e talora vanificando le possibilità e le caratteristiche della ‘piccola dimensione’.
La forma e le strutture della comunicazione – sostiene Escarpit – cambiano con l’avvento degli stati nazionali, con l’affermarsi, per la spinta economica, di una diversa, più grande dimensione politica. Mentre la parcellizzazione della vita, l’autonomia dei borghi e delle campagne tendono a mantenere viva la comunicazione orale che sorregge l’identità di ciascuno e di ciascun gruppo, la grande dimensione politica tende piuttosto a far riferimento a simboli e a stabilire norme generali, valide per tutti, emanate da un potere che si centralizza. La nascita di grandi mercati indebolisce progressivamente le economie rurali e artigiane. Interessi, idee, costumi, modi di vita subiscono cambiamenti anche drastici e il singolo – come referente – non ha più, o ha sempre meno, la comunità nella quale si sentiva soggetto e partecipe, bensì un potere centrale dal quale si sente molto distante. In questa più grande dimensione politica e comunicativa l’opinione pubblica non scaturisce, non si forma più come dialogo tra individui, ma deriva piuttosto dal confronto tra forze diverse.
In particolare l’identità del soggetto non è costruita attraverso il dialogo interpersonale, ma attraverso l’appartenenza agli ordini o ‘Stati’ prima, poi alla classe, o alla nazione, attraverso categorie e simboli diversi; praticamente gli apparati che si formano nell’ambito di un territorio determinato finiscono poi per esercitare il controllo sulla comunicazione. Sicché gli stessi strumenti della comunicazione che progrediscono via via, dalla stampa ai mezzi elettronici, assumono una valenza ambigua e da punto di riferimento per l’autonomia e la distinguibilità dell’opinione pubblica dai poteri istituiti, tendono a farsi strumenti dei potentati economici e politici per orientare il consenso, per manipolare l’opinione: e ciò anche quando si constata una certa dialettica tra i diversi apparati.
Allorché la dimensione politica oltrepassa la struttura dello Stato nazionale per assumere quella dei grandi conglomerati di popoli e nazioni, quando, come nelle strutture imperiali dell’antichità o dei tempi moderni (dall’Impero romano alla costituzione degli imperi coloniali sul finire dell’Ottocento, o dei grandi blocchi in questo secondo dopoguerra), si raggiunge quella che Escarpit definisce "l’iperdimensione", muta ancora il rapporto con la dimensione comunicativa, in quanto l’apparato politico non è più in grado di assumere un controllo integrale dell’informazione prodotta in un insieme di sistemi troppo eterogeneo per possedere una identità reale o simbolica.

L’esistenza delle diverse dimensioni non si presenta in successione cronologica; esse possono coesistere e reagire le une sulle altre. L’iperdimensione politica che non è in grado di controllare egemonicamente l’apparato delle comunicazioni, tende a imporre la propria supremazia con la forza della costrizione. L’iperdimensione comunicativa che si realizza nelle grandi strutture informative multinazionali tende a soffocare l’autonomia comunicativa con la forza economica.
Ma la difficoltà reale nell’esercizio del controllo da parte dell’iperdimensione, apre uno spazio e consente un’efficacia talora inimmaginati alla penetrazione della piccola dimensione comunicativa. Particolarmente sollecitante è l’esempio riferito alla predicazione del Vangelo cristiano nella iperdimensione politica dell’Impero romano. Il governo imperiale tendeva a mantenere le strutture locali degli Stati sottomessi lasciando loro margini di autonomia, senza preoccuparsi troppo di quanto poteva accadere nell’ambito del sistema informativo interno a ciascuno stato che doveva controllare. La predicazione di Gesù avveniva attraverso la comunicazione personale, la piccola dimensione, troppo piccola per turbare l’apparato imperiale. Viceversa essa minacciava direttamente lo Stato ebraico retto dal Re Erode e dalla casta sacerdotale, in quanto predicava un popolo nuovo, non più circoscritto alla elezione di Abramo. Poiché lo Stato ebraico non aveva il potere di vita e di morte, riservato al potere imperiale, il Sinedrio manda Gesù davanti a Pilato con la duplice accusa di ribelle alla legge romana e di eversore dell’ordine politico proclamandosi ‘re’. Pilato dapprima non riconosce le imputazioni, poi in qualche misura accoglie la seconda, ma non vuole coinvolgere l’autorità imperiale nella decisione, tanto che, simbolicamente, se ne lava le mani. Si trattava di un incidente minore che non avrebbe avuto nessun riscontro negli annali di Roma.
Una generazione più tardi, la predicazione cristiana arrivò a Roma, ma è poco probabile che Nerone avesse coscienza della sua portata universale e perciò del pericolo che poteva rappresentare per l’Impero. Solo due secoli dopo, sotto l’Imperatore Decio, il cristianesimo fu catalogato come delitto politico sotto la fattispecie penale del rifiuto di sacrificare all’Imperatore. La struttura dell’Impero ebbe allora la stessa reazione che, agli inizi, aveva avuto lo Stato ebraico; ma era ormai troppo tardi e quell’annuncio era diventato per così dire inafferrabile dalla iperdimensione imperiale, mentre la persecuzione, come in questi casi accade, dette più forte coscienza collettiva ai cristiani e accelerò il processo di costruzione di un proprio sistema e di un proprio apparato istituzionale, quello della Chiesa.
Se, venendo ai tempi nostri, pensiamo alla parabola del comunismo e dell’impero sovietico, ritroviamo, pur in un contesto divenissimo, un processo analogo. Nell’universo iperdimensionato del mondo capitalistico borghese, nell’età degli imperialismi, il comunismo si è fatto strada attraverso la piccola dimensione dei cenacoli operai e la comunicazione quasi personale dei messaggi dei suoi intellettuali; proponendo attraverso la piccola dimensione il suo messaggio di riscatto ha corroso dall’interno la struttura dell’impero zarista che ha cercato di difendersi con la repressione. Ma una volta costituito il comunismo in sistema statuale e assunte proporzioni enormi di spazio e di potere, divenuto sistema assoluto e repressivo, è stato a sua volta logorato dalla piccola dimensione comunicativa di una opposizione persino disomogenea e disgregata, che ha usato i mezzi poveri, i ‘samiszad’, i ciclostilati, gli incontri personali, con i quali si è costituita una sorta di opinione critica che ha sollecitato un singolare rivolgimento di vertice.
Non so se sia possibile trarre regole generali dalla riflessione di Escarpit sul tema della dimensione politica e comunicativa. Risulta tuttavia caratteristica della iperdimensione la difficoltà di controllare i diversi sistemi che si manifestano e crescono all’interno dei suoi confini. Perciò la tentazione terminale è la repressione e la persecuzione di quei sistemi che non si compongono o si ribellano alla iperdimensione. Peraltro, nelle condizioni della iperdimensione, il messaggio che ha una portata trasformatrice, di cambiamento o, se si vuole, rivoluzionaria rispetto al sistema dato, si trasmette e può avere successo attraverso la comunicazione propria della piccola dimensione, attraverso la comunicazione diretta tra le persone, il dialogo che può mettere radici profonde nel tessuto umano: e ciò quanto più il messaggio è innovatore e quindi scarsamente omogeneo con la cultura dominante.
Checché ne pensasse McLuhan, la comunicazione che si espande a dimensione mondiale non corrisponde affatto al villaggio globale. Mentre per fronteggiare l’impulso avvolgente e omologante della comunicazione che acquista dimensioni mondiali, per cercare di costruire o di mantenere una coscienza critica, si rivela importante e in taluni casi decisivo, il modo di comunicare del villaggio ‘autentico’. Se ne può dedurre, sia pure con beneficio di inventario, che ogni messaggio che contenga la speranza, se non la pretesa, di toccare in profondità le condizioni della comunità umana, ha bisogno di quel tipo di comunicazione in grado di mettere radici, di coinvolgere direttamente le persone, un tipo di comunicazione che non solo semina, ma prepara il terreno.

7. La comunicazione della Chiesa

Se quanto detto in proposito ha un senso, credo che ciò valga in modo non indifferente per la comunicazione del messaggio cristiano nella società contemporanea: in altre parole, potremmo anche dire, per la politica della comunicazione della Chiesa. Dal momento che la Chiesa ha assunto e benedetto i valori della democrazia moderna, ha anche compiuto un concomitante sforzo di assimilazione degli strumenti della comunicazione. Da una iniziale diffidenza che tendeva a costituire la cristianità come realtà separata, la Chiesa si è venuta aprendo al mondo moderno e ai suoi strumenti, come dimostrano i documenti del Concilio Vaticano II. Ma è anche venuta prendendo consapevolezza dei limiti degli strumenti medesimi. Inserita in un universo comunicativo iperdimensionato, la Chiesa, opportunamente e legittimamente, domanda di esser presente in quanto istituzione, nei mezzi medesimi, e di poter comunicare perciò attraverso gli strumenti, le proprie esigenze, le proprie posizioni nell’ordine sociale, morale, economico alla stregua di ogni altra struttura esistente e operante in una società determinata.
Ma in quanto la Chiesa intende comunicare se stessa come segno di conversione, in quanto essa si assume come continuatrice e cooperatrice della salvezza, nei modi della testimonianza del servizio diaconico e della missione universale, il suo messaggio non è destinato ad avere udienza nella iperdimensione comunicativa, in quanto quest’ultima appartiene alle strutture tipicamente mondane legate per lo più, nei tempi nostri, alle esigenze del mercato. Per questo penso che lo strumento proprio per questo messaggio profondo, come ogni messaggio portatore di mutamenti radicali e profondi non possa essere che la ‘piccola dimensione’. Anche il Card. Martini che arriva a considerare i mezzi di comunicazione di massa come "tende potenziali" in cui il Vangelo non disdegna di abitare, "lembi del mantello" di Gesù attraverso il quale può passare la sua potenza salvifica, riconosce che comunque c’è "una eccedenza di mistero divino" che deve rendere particolarmente attenti a quanto trascende ciò che la notizia comunica.

8. Conclusione

Volendo ricapitolare gli aspetti del rapporto tra politica e informazione qui considerati, si possono fare le seguenti osservazioni.
– È importante risalire costantemente al significato e al valore originario della ‘pubblicità’ in senso kantiano, in quanto rappresenta il fondamento dell’attenzione critica al potere comunque istituito e lo sforzo di uscire, per quanto possibile, dalla concezione della politica come arcana imperii. Questa concezione di fondo della ‘pubblicità’, e conseguentemente della libertà di comunicazione, rappresenta un momento essenziale della democrazia e comporta non solamente lo sforzo degli operatori di farsi interpreti della coscienza pubblica nei confronti dei poteri, ma anche, compatibilmente con la complessità dei moderni strumenti di comunicazione, l’impegno a realizzare quanto più è possibile una comunicazione pluridirezionale, che renda effettivamente le espressioni della società non politica interlocutrici efficaci del potere politico.
– Una seconda osservazione è la seguente. Cosi come la comunicazione si presenta nel mondo sviluppato con le sue strutture complesse, inserite per lo più in una logica di mercato, la relativa libertà rappresenta un momento importante e necessario per ossigenare e conservare il complessivo meccanimeccanismo economico e politico nel quale gli strumenti sono inseriti. Ma tali strumenti di comunicazione di massa, proprio in quanto legati a esigenze di mercato, non rappresentano di per sé strumenti significativi per mutare le strutture portanti di un determinato ordinamento, o come anche si dice, per cambiare il sistema. Il sistema della comunicazione è, almeno in linea di massima e per le sue inevitabili servitù economiche, omogeneo alla ideologia egemone o dominante (tenendo presente che il termine ideologia non designa soltanto la falsa coscienza o la maschera di interessi che non si vogliono esporre alla pubblicità, ma anche, in positivo, l’insieme di idee, di principi, di tradizioni fondativi che costituiscono l’identità di un determinato gruppo associato). Il veicolo principe di ogni tensione profondamente innovatrice o rivoluzionaria, resta dunque la ‘piccola dimensione’.
– Infine, sul rapporto informazione-politica, va aggiunta un’osservazione non del tutto ovvia, viste le lotte che si svolgono per l’uso o il possesso di strumenti informativi da parte di personaggi o di forze politiche. Il possesso e l’utilizzazione anche saggia e tecnicamente abile dei complessi sistemi di comunicazione, non possono alla lunga rimpiazzare la carenza di idee e di cultura politica. Per dirla con un assioma, è la buona politica che fa buona l’informazione; mentre la buona informazione non basta a sussidiare la cattiva politica.

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Note

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